Non esiste un libretto d’istruzioni per le relazioni, solo con il tempo si può sperare di allenare vista e attenzione per scorgerne i confini. A volte netti, altre incerti, se non praticamente inesistenti.
Ogni relazione racconta una storia diversa, eppure ci sono segnali che si presentano puntuali, ogni volta che il possesso usurpa uno spazio che deve essere dell’amore. Parliamo della violenza sulle donne, che sfocia a volte in femminicidio.
A prescindere dai giudizi di merito espressi da qualcuno su questo termine, esiste un fenomeno che consiste nel violare, umiliare, tentare di cancellare una donna per il suo legittimo diritto ad esprimere sé stessa, pretendere libertà ed autodeterminazione, quando per riuscirci decide di chiudere una relazione ormai diventata tossica.
Un fenomeno che può assumere le forme e gli accenti più diversi, ma comunque sufficientemente frequente da non poter essere ignorato. Al contrario, spesso nel nostro quotidiano ne osserviamo – o viviamo – manifestazioni solo apparentemente infinitesimali. Il divieto di coltivare amicizie o interessi che ci accompagnano da anni, la richiesta di leggere e-mail o sms perché “tanto, se non hai nulla da nascondere, che male c’è?” Pretese che sembrano innocue solo perché non necessariamente sfociano in altro, ma che certo segnalano già che la sete di possesso e controllo, quando nasce, esclude per sua stessa natura l’amore.
Soltanto nel 2012, sono state 124 le donne morte di questo. Una su quattro era sul punto di concludere la relazione, o l’aveva già fatto. Nel 63 % il femminicidio è avvenuto in casa della vittima, o dell’assassino, o di un familiare. Questi sono solo alcuni dei dati contenuti nel rapporto sul femminicidio in Italia stilato dallaCasa delle Donne di Bologna, che dal 2005 si occupa del fenomeno; l’elaborazione viene effettuata raccogliendo i dati dalla stampa nazionale e locale.
A tal proposito, precisa infatti Anna Pramstrahler (Di.Re – Donne in rete contro la violenza), “Ci sono i numeri del ministero degli Interni sugli omicidi e sulla criminalità, ma non ci sono dati specifici che permettono analisi del tipo ‘il fenomeno è in aumento o in diminuzione’ […] Le donne sono sempre state uccise perché donne, in casa, dal marito: 100 anni come 50 anni fa, come 25. Anzi in passato la situazione era peggiore a causa del delitto d’onore. Non si può dire che i femminicidi siano un’emergenza di adesso.
Quello che si può dire è che oggi vi è una maggiore sensibilità, che se ne parla di più, sulla stampa per esempio, e che sta emergendo di più: le donne non subiscono più per 20-30 anni violenze, ma si rivolgono prima ai centri antiviolenza. Finora il fenomeno era invisibile, ora non più. Servono però indagini che vadano indietro anche di cento anni per capire quanto questo sia un fenomeno culturale profondamente radicato. Così si evita di definirlo un’emergenza. Altrimenti si corre il rischio di iniziative sporadiche che non hanno una ricaduta a lungo termine ed efficace”.
L’omicidio è l’atto finale, prodotto e risultato di un percorso volto all’annullamento della donna. Il fenomeno della violenza è una sorta di galassia, che al suo interno comprende realtà multiple, correlate ed a volte praticamente in sequenza. Una spirale, che se conosciamo, possiamo spezzare sul nascere. E’ fondamentale quindi, parlare e parlarne. In questo senso, i media possono assumere un ruolo importante, in termini di prevenzione.
A tal proposito, si legge nel rapporto della Casa delle Donne, “Un dato interessante su cui pare opportuno soffermarsi, il solo a segnare una notevole discontinuità rispetto agli anni precedenti, è quello riguardante il numero di casi in cui la stampa riporta l’informazione sulla presenza di precedenti di violenza e maltrattamento contro la vittima effettuati dall’autore. Ebbene se fino al 2011 in quasi il 90% dei casi riportati dalla cronaca tale tipo di informazione non era reperibile, perché l’articolo non ne faceva cenno, oggi sappiamo invece che il 40% delle donne uccise nel 2012 aveva subito precedenti violenze da quel partner od ex che poi l’ha uccisa. E’ un dato che ci soddisfa da un lato, perché è segno di come, anche grazie al nostro lavoro, la sensibilità e la cultura dei media siano cambiati, di come la consapevolezza del legame profondo tra violenza di genere e femminicidio, che abbiamo sempre denunciato, sia diventata patrimonio comune.
Al tempo stesso questo dato ci dice anche un’altra cosa molto importante, ovvero come sia assolutamente necessario e urgente fermare la violenza prima che essa giunga all’irreparabile. Esso ci permette di affermare con sempre maggiore convinzione che è necessario e possibile prevenire questi delitti, offrendo una protezione maggiore e più adeguata alle donne che vivono situazioni di violenza, e per far questo è necessario destinare risorse ai centri antiviolenza, rafforzare le reti di contrasto alla violenza tra istituzioni e privato sociale qualificato, effettuare una corretta formazione di operatori sanitari, sociali e del diritto, perché sempre più donne possano sentirsi meno sole, possano superare la paura e divenire consapevoli che sconfiggere e sopravvivere alla violenza è possibile.”
Intanto, per chiedere alle istituzioni di discutere, agire e quindi prendere nettamente posizione nell’azione di contrasto del fenomeno, è nato Ferite a morte, progetto teatrale scritto da Serena Dandini, a cui per la parte inerente i testi e le ricerche ha collaborato Maura Misiti, ricercatrice del CNR. Un’iniziativa, questa, che sta girando l’Italia, e che vuole, raccogliere più adesioni possibile alla Convenzione No More! e sensibilizzare sul ruolo prezioso dei Centri antiviolenza, spesso costretti a fare i conti con la cronica insufficienza di risorse.
Quando si parla di violenza sulle donne, “ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti non è affatto casuale.”, come si legge nel manifesto di Ferite a morte. Il fenomeno uccide le donne, ma annienta per entrambi la possibilità di rapporti sani, costruttivi, appaganti. A morire siamo noi, ma a perdere sono tutti.
Tutti siamo coinvolti, tutti responsabili. Per questo, per combattere il fenomeno è necessario l’impegno di tutti. Istituzioni, privati, donne e uomini, noi ed i nostri compagni. Perché mai più l’abuso della parola amore nasconda in sé la morte fisica o morale di una donna.