È la più bella composizione poetica di tutto il mondo e di ogni tempo. La sua è una bellezza assoluta, cosmica, totale, che penetra tutto il creato e arriva quasi a lambire l’ineffabilità di Dio. Nemmeno il Salomone del Cantico dei Cantici che pure per tanti versi gli somiglia e al quale senza dubbio Francesco si è ispirato, nemmeno il Dante della Preghiera di san Bernardo a Maria («Vergine Madre, Figlia del Tuo Figlio») sono arrivati tanto in alto e così in profondo.
Era il 1224, e Francesco giaceva ammalato su un lettuccio del suo San Damiano, la chiesetta diroccata dove una ventina di anni prima aveva ricevuto dal Cristo crocifisso il messaggio che aveva cambiato la sua vita e dove erano adesso insediate Chiara e le sue sorelle. I grandi interpreti del Povero d’Assisi hanno scritto molto su di lui, sugli ultimi anni della sua giornata terrena, sul suo rapporto con Chiara e le altre, e di quegli stessi pochi, ispirati, altissimi versi. Sappiamo tutto quello che si può sapere.
Ma lasciamo da parte tutta quella scienza. Sforziamoci d’immaginarlo, quel povero piccolo omiciattolo smagrito dopo una notte di dolore e di pena, tra i rumori dei topi sotto il pavimento che non lo hanno lasciato dormire, quando il sole nascente dell’alba ferisce i suoi occhi malati – è il tracoma preso cinque anni prima in Egitto, alla crociata – e glieli fa lacrimare. Sforziamoci di veder il mondo – le povere suppellettili di quella stanzetta, la luce incerta eppur abbagliante – attraverso quegli occhi ormai in grado di distinguere forse appena poco più che delle ombre. E scrive, o meglio detta perché di scrivere non ha la forza. Non sappiamo a chi. Scrive di getto parole che gli salgono direttamente dal cuore: amiamo credere che da allora sin a quando sul punto di lasciare questa terra detterà la quartina finale su sorella Morte dalla quale nullo homo vivente po’ skappare egli non abbia cambiato nulla di quel perfetto canto d’amore.
Si sono versati fiumi d’inchiostro e scritte biblioteche intere su quei pochi versi. Nella loro luminosa chiarezza, essi appaiono ineffabili come Colui in onore del Quale sono stati scritti. Nessuno può gloriarsi di averli sul serio decifrati sino in fondo. Lo Spirito soffia dove vuole: e quella mattina ha soffiato su quel povero frate e sui suoi occhi arrossati che hanno finalmente visto il Mistero dell’universo. Quelle parole parlano di Dio, della Sua Gloria, della Sua infinita Maestà (Onnipotente), della Sua carità infinita (Bon Signore), della Sua incommensurabile distanza rispetto agli uomini eppure della forza con la quale egli sa arrivare a loro, e soprattutto a quelli tra loro che sanno perdonare per amor Suo, attraversando tutto il creato, cioè l’universo: Messer lo Frate Sole, immagine nobilissima (significatione) di Dio, e la luna, e le stelle, e quindi i quattro elementi di cui la materia del mondo è costituita – il fuoco, l’aria, l’acqua, la terra con i suoi fiori e i suoi frutti. Quella poesia, che molti hanno giudicato ingenua – e in fondo con ragione – abbraccia il mistero del creato e della natura con una forza e una chiarezza che, dopo i pochi versetti del Genesi, nessun filosofo e nessun poeta era mai riuscito a eguagliare.
Il Cantico è un irreprensibile, cristallino trattato teologico. A torto lo si è interpretato come un testo “panteista”. Non c’è proprio nulla, qui, di panteistico: il cosmo e la natura si guardano bene dal fondersi e dal dissolversi in Dio; e Dio dal fondersi e dal dissolversi con loro. Il Cantico delle creature è appunto tale perché è scritto in lode del Creatore, e anche in loro lode, e in lode dell’uomo che tra le creature è la somma, la più amata, quella fatta «a Sua immagine e somiglianza», ma che pur sempre resta creatura, sorella pertanto di tutte le altre.
C’era stata, nella filosofia cristiana del secolo XII, una grande tentazione panteistica: era quella neoplatonica, dei Maestri della scuola di Chartres. Ma a quella tentazione Francesco, che dei Maestri presumibilmente non aveva mai letto almeno direttamente neppure una riga – il che non toglie che ne avesse sentito parlare –, neppure un attimo soggiace. Dio resta il Creatore, amorosamente vicino ma infinitamente superiore a qualunque creatura. In cambio, c’era un altro pericolo a minacciare la Chiesa del tempo: e Francesco, che nel secondo decennio del secolo aveva attraversato la Francia meridionale sconvolta dalla “crociata degli albigesi”, doveva averlo ben presente.
Del resto, nella sua Assisi, aveva probabilmente sentito anche lui predicare quegli strani profeti pallidi e smagriti, che annunziavano il Regno di Dio con le parole dell’evangelista Giovanni a attaccavano la Chiesa ricca, avida e superba. Più tardi, qualcuno di loro aveva probabilmente attaccato anche lui dandogli dell’ipocrita e del falso cristiano.
Erano gli adepti della “Chiesa” catara, una vera e propria anti-chiesa che si presentava sotto le vesti della portatrice dell’autentico cristianesimo, quello “delle origini”, quello povero e puro, ma che in realtà ai loro seguaci spiegavano che la Chiesa li ingannava perché era la Bibbia ad averli ingannati, che il vero Dio, il Signore della Luce, era il puro Principio Spirituale, e che le sostanze spirituali che da lui emanavano rischiavano di continuo di venire imprigionate nella materia creata da un altro Principio oscuro e malvagio, il Signore delle Tenebre. Luce contro Oscurità, Giorno contro Notte, calore del Bene contro freddo raggelante del Male. Ma se le cose stavano così, se questo era il cosmo, allora il creatore di tutte le cose era lui, il Principio malvagio, il crudele Demiurgo.
Il Creatore adorato da tutti i figli di Abramo era Satana; il creato, cioè la materia, era il Male assoluto; e quanto all’uomo, spirito eletto imprigionato in una laida gabbia di carne, solo la morte avrebbe potuto liberarlo. Il paradossale era che da alcuni decenni questa agghiacciante filosofia mortifera aveva affascinato la parte forse migliore della cristianità: i gran signori e i bei cavalieri di quella Provenza, nella quale il vivere era tanto dolce e dove i trovatori cantavano d’amore non meno dei prosperi mercanti lombardi e toscani, si erano lasciati avvincere da questa fede della Liberazione attraverso la Negazione della Vita.
La Chiesa, la superba e potente Chiesa di papa Innocenzo III, aveva risposto a questo attacco inaudito con una furiosa crociata e con i tribunali dell’Inquisizione. Ma quel che né l’una né gli altri sarebbero mai forse riusciti a fare per sradicare quella malapianta travestita da fiore di virtù (corruptio optimi pessima) seppero farlo i pochi, miracolosi versi della più grande poesia mai scritta al mondo. Tutto, in fondo, sta dunque nella semplicità di quella preposizione semplice che ha tormentato filologi, linguistici e storici: quel per che torna iterante in ogni versetto del Cantico. Che cosa significa? È un complemento di causa, come la spiegazione più ovvia suggerirebbe (che Tu sia lodato, o Signore, per aver creato…)?
O un complemento d’agente, simile al par francese e al por castigliano (che Tu sia lodato, o Creatore, da parte della corte di tutte le creature che adoranti Ti circondano)? O un complemento strumentale, simile al diàgreco (che Tu sia lodato, o Signore, non solo direttamente dall’uomo, bensì anche attraverso ogni cosa da Te creata, e che conferma la Tua potenza e il Tuo amore)? Fermiamoci qua, perché gli studiosi hanno aggiunto molte altre cose.
L’esegesi di questi brevi versi non finirà mai, proprio come il mistero della creazione e quello di Dio. Papa Francesco ha voluto dedicare a quella lode infinita a Dio creatore e al creato la sua nuova enciclica Laudato si’, che viene pubblicata oggi, per ricordarci che l’uomo – proprio secondo la lettera e lo spirito del Genesi – non è il padrone dell’universo (Uno solo è il Padrone) ma che ne è il guardiano, il Custode; e che alla fine dei tempi, come ciascuno di noi dovrà riconsegnare a Dio la sua anima concessagli immacolata e da lui più volte sporcata e strappata, ricucita e ripulita, l’umanità dovrà riconsegnarGli il creato.